sabato 2 dicembre 2017

Arriva il generale Inverno con i suoi vini rossi. 5 Eccellenze che non ci stanno affatto in cagnesco, dal maso trentino al trullo pugliese, via Valtellina, Piemonte e Toscana


Veduta di Caiarossa, tenuta toscana in Val di Cecina.
È inutile girarci intorno. Rosso tutte le stagioni, bianco strutturato anche con la carne, rosato sugli scudi, bollicine forever e così via, sperimentando e provando, non sempre con soddisfazione. Ma la stagione invernale – e ormai ci siamo – vuole cibi di carattere, carni importanti, pesci salsati e ricchi. Tutta roba che si sposa divinamente con i vini rossi, purché buoni e giusti. E ovviamente “puliti”, come aggiunge di solito il guru Carlin Petrini. Eccone allora cinque, scelti con cura e passione, dal Nord-est al Sud-ovest, che parlano altrettanti dialetti, ma una sola lingua: l'italiano dei vignaioli per bene.
Un’azienda vinicola da 70milioni di bottiglie annue, può fare anche vini d’eccellenza? Sì, se si chiama Cavit (cooperativa con10 cantine sociali e 4500 viticoltori associati) ed è in grado di fare seleziona su terreni e vitigni, di produrre vini con protocolli moderni ed efficaci e di distribuirli su tre linee di qualità crescente come sono la Mastri Vernacoli, Bottega Vinai e Il Maso. Per esempio, il vitigno principe del Trentino, il teroldego rotaliano, può divenire vino immediato quanto piacevole nella linea Mastri Vernacoli (ottimo per bolliti misti e polenta), si fa più complesso nella versione Bottega Vinai (più adatto quindi su grigliate di carne, spezzatino, lepre in salmì) e diventa opulento nella Linea Il Maso, che per altro contempla solo altri tre vini: il Marzemino Superiore Romani e i bianchi Torresella, splendido Chardonnay Riserva e Torresella Cuvée, uvaggio appunto di sauvignon, chardonnay, gewürztraminer e riesling renano.
Il Maso Cervara 2014 (solo 6mila bottiglie), è un Superiore Riserva. Le uve teroldego sono coltivate biologicamente, anche se non se ne fa cenno in etichetta, intorno al maso stesso, su terreno di natura alluvionale, poco profondo, su riporti ghiaiosi del torrente Noce. La resa non supera gli 80 q.li per ettaro. L’uva solitamente si vendemmia a fine settembre, poi il vino passa in barrique e botti grandi per circa due anni. Il 2014 è stato imbottigliato nel dicembre 2016 e si è affinato almeno sei mesi in bottiglia.  Un vino dal colore rosso rubino fitto, che conserva sfumature violacee. Al naso prevagono i sentori di piccoli frutti rossi e di violetta, con accenni balsamici e speziati. In bocca è caldo, equilibrato, ancora un po’ tannico, ma dolcemente, con echi speziati e un retrogusto di frutti rossi in cui prevale la mora.
Abbinamento classico con polenta carbonera, selvaggina, stinco di vitello al vino rosso, formaggi stagionati.
* Maso Cervara, Teroldego rotaliano Doc Superiore Riserva 2014, 25 € la bottiglia. Prodotto da Cavit, via del Ponte 31, Trento, tel. 0461.381711, www.cavit.it.
In campo letterario, La Spia è un nome fortunato. Vengono alla mente almeno due libri di successo, La spia di Paolo Coelho, protagonista Mata Hari e La spia romanzo ottocentesco di J. F. Cooper, sulle imprese dell’astuto Harvey Birch durante la guerra d’indipendenza americana. In campo enologico, La Spia è un piccolo vigneto a Castione Andevenno, in Valtellina (nella pregiata sottozona Sassella), che ha dato il nome alla cantina inaugurata otto anni fa da Michele Rigamonti. Probabilmente nome e impresa che faranno fortuna, anche loro. Già il padre di Michele e il nonno producevano lì vino per uso famigliare. Poi lui decise di farlo in maniera professionale quanto appassionata. Tre ettari di vigna corrispondono oggi a quattro vini, un bianco e un rosso Igt, un Valtellina Superiore e un Sassella Docg.
Rigamonti si avvale di un giovane enologo come Emil Galimberti, laureato a San Michele all’Adige e con titoli acquisiti in campo enologico e viticolturale a Trento, Udine, Torino, Montepellier e
Bordeaux e con esperienze in Francia, Nuova Zelanda e Inghilterra, oltre che nella stessa Valtellina. I vini sono per lo più invecchiati sapientemente e a lungo, sfruttando le doti dei contenitori in acciaio quanto quelle del legno di rovere francese e non lesinando sull’affinamento in bottiglia. Il PG 40 (PG sta per Paganoni Giovanna, la madre di Michele, nata nel 1940) Valtellina Superiore Sassella 2011 è stato premiato in ottobre alla 34a edizione del Grappolo d’oro di Chiuro, da una giuria stupita di trovarsi di fronte a un vino di così gran carattere, prodotto da un’azienda così giovane. Lo stesso vino, dell’ultima annata in commercio, il 2012, si dimostra all’altezza del fratello maggiore. Il vitigno è naturalmente il nebbiolo in purezza, chiamato in Valtellina chiavennasca, situato a 350-400 s.l.m., su terreno terrazzato con forte presenza di roccia madre affiorante, sabbioso con presenza di limo e buona dotazione di sostanze organiche. La resa per ha è sui 55-60 q.li. Dopo la vinificazione a temperatura controllata, il vino ha passato 6 mesi in vasche inox e tre anni in botti di rovere francese, quindi si è affinato per sei mesi in bottiglia. 2000 bottiglie (in totale la produzione attuale è di 20mila l’anno, ma aumenteranno).
Classico colore rosso rubino, profumi di rosa appassita e frutta matura, ma anche di viola e piccoli frutti rossi, con ricordi speziati. Asciutto in bocca, con bella presenza dei tannini, già in equilibrio, tendenti al velluto,  fresco e snello con bel finale sapido. Con che piatti sposarlo? L’abbinamento regionale suggerisce pizzoccheri e risotto al formaggio Bitto, ma anche una bella lepre in salmì e formaggi stagionati fanno matrimonio d’amore. Lo chef-patron Filippo La Mantia (omonimo ristorante a Milano), siciliano, che però ha in uggia aglio e cipolla, l’ha proposto con un originalissimo quanto gustoso primo di paccheri in “zuppa forte” di pesce e cime di rapa, piccantino e saporoso, quanto azzeccato.
PG 40, Valtellina Superiore Sassella Docg 2012, sui 28 € la bottiglia. Prodotto da Cantina La Spia, via Nazionale 68, Castione Andevenno (Sondrio), www.ribelwine.com .
L’accento è grave, ma il vino è soave. Il Ruchè (non Ruché) di Castagnole Monferrato, è un rosso Docg piemontese, dai numeri modesti (136 ettari di vigneto coltivati su 7 piccoli comuni, 776mila bottiglie prodotte nel 2016, divise fra 35 produttori), ma dalla storia quasi leggendaria. In realtà persino il suo nome ha avuto diverse grafie, prima che la Docg lo codificasse come Ruchè. Era scritto anche con l’accento acuto o addirittura con un francesizzante dittongo ou: Rouché o Rouchét. L’uva, coltivata sin dal Medioevo sulle colline del Monferrato, ha cominciato ad affermarsi come vino da tavola di una certa valenza con Luigi Veronelli, che ne scrisse sui suoi cataloghi dei vini degli anni Sessanta (Bolaffi) e poi del 1986 (Giorgio Mondadori). Veronelli lo definisce “rosso rubino, sottolineato da vivaci riflessi viola”; ne avverte un “bouquet ben dichiarato con sentori di frutta e rosa e, più marcato, di viola”; in bocca lo trova “asciutto, sapido, con sentore di spezie; duro al primo contatto, si apre in bocca per nerbo sano e stoffa consistente, che si prolunga in velluto; pieno carattere”. Lo consiglia in abbinamento a “piatti saporosi della cucina locale, in particolare sulla spalla di vitello brasata”. Cita e pubblica le etichette di quattro produttori: Scarpa, Rabezzana, Biletta e Cauda.
Ed era stato proprio Don Giacomo Cauda, parroco di campagna, a (ri)vinificare per primo, in epoca
recente, quelle uve scontrose con l’obiettivo di ottenerne un vino di qualità. Negli anni Sessanta creò l’etichetta Ruchè del parroco, con un angelo dalle ali aperte come emblema e nei lustri successivi il Ruchè verrà identificato con quel nome e quell’etichetta. Il vino era buono, particolare e piano piano anche altri vignaioli si fecero avanti, recuperando magari una tradizione familiare caduta in oblio, a favore dei più produttivi barbera e grignolino. Arriva anche la Doc (e negli anni Duemila, la Docg) e il Ruché diventa un vino di un certo successo.
Don Cauda nel 1993 per ordini superiori però deve alienare le proprietà fondiarie, vigne comprese, all’istituto diocesano per il sostentamento del clero, che le rivende. Il parroco del Ruchè morirà 79enne nel 2008. Le vigne erano intanto passate al produttore locale Francesco Borgognone, il quale nel 2016 le rivende a Luca Ferraris, un giovane agronomo entusiasta del vino del territorio, legato a Castagnole da 4 generazioni familiari e ben deciso a volorizzarlo al massimo.
Già l’Agricola Ferraris produceva Ruchè in tre versioni,  l’Opera prima, un Ruchè d’invecchiamento,  fiore all’occhiello della produzione, Clàsic, una selezione, e Bric d’Bianc, di più facile beva. Con la Vigna del parroco Ferraris vuole riportare in auge il tradizionale rosso di Don Cauda, vuole farne un marchio a parte, esaltare l’unico cru riconosciuto sul territorio, quasi come un prodotto eterno, punto di riferimento storico e attuale del vino.  Così, il nuovo, antico Ruchè, è appena uscito in veste rinnovata, con quel nome e quell’emblema, ma ripensati secondo uno stile contemporaneo. Come lo stesso vino, che mantiene intatte le migliori caratteristiche di piacevolezza, carattere ed estrema eleganza.
Ruchè di Castagnole Monferrato Docg, Vigna del parroco 2014, 15 € la bottiglia. Prodotto da Agricola Ferraris, S. P. 14, loc. Rivi 7, Castagnole Monferrato (At), tel. 0141.292202, www.ferrarisagricola.com.
Tutto risulta piuttosto anomalo quando si parla di Caiarossa. Il nome. Che vuol dire? È un richiamo al rosso intenso dei terreni, caratterizzati dalla presenza di diaspro, rocce e ghiaia; e a Gaia, madre degli dei dell’Olimpo e dea della fertilità. Il luogo. La Val di Cecina, non esattamente rinomata per i suoi vini. I metodi. Biodinamico per l’agricoltura; geodinamico e Feng Shui per il progetto della cantina. La proprietà. Toscana? No francese, con un olandese, Eric Albada Jelgersma alla guida, forte anche dell’esperienza proprietaria di due châteaux nel Margaux, i Grands Crus Classés Château Giscours e Château du Tertre. I vitigni. Sangiovese? Poco, qui trionfano gli internazionali, in prevalenza quelli d’Oltralpe: cabernet franc e sauvignon, merlot, petit verdot, syrah, alicante per i rossi; chardonnay, viognier e petit manseng per i bianchi.
La cantina, circondata dai vigneti, è appoggiata sul versante sud-ovest di una collina. Il clima non è mai eccessivamente caldo, grazie all’altura e alla brezza marina che vi spira. Vendemmia rigorosamente manuale, in cassette: da settembre a novembre, quando l’ultima uva, quella del petit manseng, viene raccolta dopo l’appassimento in pianta; darà luogo a un vino da vendemmia tardiva straordinario, chiamato Oro di Caiarossa: perfetto con Gorgonzola a due paste (piccante) e Roquefort. Ma è l’unico vino manovarietale, gli altri sono quasi tutti un mosaico di vitigni, vinificati parcella per parcella e ricomposti in assemblaggi difficili, ma ben studiati per risultare armonici.
Il Caiarossa bianco è fatto con viognier e chardonnay, con un passaggio di poche settimane in legno piccolo. I rossi sono tutti vini “da taglio” (nel significato bordolese). L’unico che parla toscano è il Pergolaia, basato su sangiovese, con piccole aggiunte dei due cabernet e di merlot. Già si respira Aria di Caiarossa (e cioè anche di bottiglie più importanti) con l’omonimo Igt Toscana, composto da cabernet franc, merlot, syrah e cabernet sauvignon, fresco, morbido, dopo la maturazione in barrique e tenneau. Ma il vino portabandiera dell’azienda è il Caiarossa, uvaggio di ben sette vitigni: merlot, cabernet franc e sauvignon, syrah, sangiovese, petit verdot e alicante. Vigne di 17 e 18 anni, di oltre 9mila piante per ha. E 40 q.li d’uva, sempre per ha. Barrique e tonneaux francesi, nuove e usate, per circa 18 mesi in media e 6 mesi di vasca in cemento prima dell’imbottigliamento. In annate particolari viene prodotto anche l’Essenzia di Caiarossa, superselezione imbottigliata solo in magnum.
Attualmente è in vendita il Caiarossa 2013, ma annate più vecchie, degustate nel corso di una presentazione al Park Hyatt di Milano, hanno dato risultati molto apprezzabili, in particolare la 2006, ricca ed elegante. Freddo d’inverno, una primavera piovosa e un agosto più freddo della media hanno prodotto condizioni avverse per la crescita dell’uva, nel 2013. Ma i preparati biodinamici utilizzati al momento giusto e le perfette condizioni di settembre hanno fatto ritrovare equilibrio al vigneto, con giusta maturazione dei tannini, senza zuccheri in eccesso. Il colore è un bel rosso rubino fitto, i profumi prevalenti sono di piccoli frutti rossi e prugna e già si avverte un poco di tabacco e pelliccia bagnata. In bocca appare ricco, elegante e sapido, con tannini in evoluzione. Il neo bistellato Michelin Andrea Aprea, chef del ristorante Vun del Park Hyatt,  l’ha proposto in abbinamento a una spalla d’agnello con rape e malto d’orzo. Perfetto.
*  Caiarossa, Toscana Igt 2013, sui 45  la bottiglia. Produttore: Caiarossa, Podere Serra all’Olio 59, Riparbella (Pisa), tel. 0586.699016, www.caiarossa.com .
Era il sogno di Mino Calò, gran patron di Rosa del Golfo, prematuramente scomparso a 55 anni, nel 1998. Dopo aver realizzato un grande rosato come il Rosa del Golfo, che dà il nome all’azienda, voleva produrre anche un grande rosso con i vitigni autoctoni del Salento. Ci sono riusciti i figli, Damiano e Pamela, con la mano sapiente dell’enologo Angelo Solci. Quarantale è il nome del vino, che in dialetto salentino significa solco, quello che si scava nel terreno per poi piantarvi una vigna nuova. Il vino viene prodotto solo nelle annate ritenute migliori e così, dopo il 2010, è ora la volta del 2013, cui seguirà il 2015, che sta ancora maturando in botte.
Il rosso attualmente in commercio, è  il frutto del meditato assemblaggio di negroamaro (70%), primitivo (20%) e malvasia nera (10%). I vigneti ad alberello, di 50 anni, si trovano a pochi km dal mare e fanno tesoro della brezza salina e di un’escursione termica notevole, che aiuta a conferire al vino toni lievemente balsamici. Le tre uve sono vinificate separatamente e quindi assemblate per trascorrere un anno a maturare nelle piccole botti da 228 litri. Riposano poi ancora un anno in bottiglia. Il 2013 è stata un’annata buona per gran parte dei vini italiani. Non diversamente per Quarantale che, dopo l’opportuno invecchiamento, è risultato all’assaggio strutturato ma elegante, con profumi di macchia mediterraneo (elicriso, pino) e spezie, e un tocco balsamico. Bel finale, lungo e coerente.
Da provare sui piatti locali, come gli involtini con le cento pezze (parti della trippa), pezzetti di cavallo e anche altri piatti della cucina italiana, come costolette d’agnello, selvaggina e formaggi saporiti.
*  Quarantale, Salento Rosso Igp 2013, 25 la bottiglia. Prodotto da Rosa del Golfo, via Garibaldi 56, Alezio (Lecce), tel. 0833.281045, www.rosadelgolfo.com 

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