martedì 17 febbraio 2015

Dieci anni dopo: camminare la terra col bicchiere in mano sulle orme di Gino Veronelli



Mario Soldati, Gianni Brera, Luigi Veronelli e, di fronte, Ermanno Olmi a un Premio Nonino
Nel centro dello spazio Impluvium, al primo piano, è stata ricostruita in piccolo la cantina della sua casa di Bergamo, con bottiglie autentiche nei cubi di cemento. Intorno, lungo le pareti della sala e sui tavoli, foto, libri che ha scritto o editato (da Lelio Basso al marchese de Sade, alle guide enogastronomiche). Poi i personaggi coevi, da Soldati a Brera, le trasmissioni in Tv con Ave Ninchi, i suoi “no” a vini e oli industriali, ma anche i suoi fortissimi sì all’importazione e uso delle barrique (o carati, come preferiva chiamarle) in Italia. Tutto in pochi metri quadrati, per niente esaustivo, quasi in progress, come a significare che si tratta di un assaggio alla personalità complessa e poliedrica di Veronelli, a dieci anni dalla sua scomparsa. Luigi Veronelli – Camminare la terra (fino al 24 febbraio alla Triennale di Milano, poi a Bergamo, da maggio a ottobre) è il titolo dell’esposizione, curata da Alberto Capatti, Aldo Colonetti e Gian Arturo Rota e progettata dagli architetti Franco Origoni e Anna Steiner (già leader del movimento studentesco di Architettura, nel ’68 e dintorni).
Belle, anche affascinanti rievocazioni, ci ridanno il Gino battagliero intellettuale, anarchico qualche volta conformista, grande affabulatore e inventore di un linguaggio (una lingua?) che in qualche modo lo affratella con Gianni Brera: non condividevano le stesse passioni sportive (per l’uno lo sci, praticato e insegnato, per l’altro il calcio, scritto), ma il medesimo interesse culturale per vino e cibo, sì. Culturale, nel senso proprio della cultura materiale: si assaggia, si mangia anche abbondantemente (la cosiddetta pacciada, anche titolo di un loro libro, scritto a quattro mani), si beve (Veronelli si vantava di consumare due litri al giorno, di vini, ma dei “suoi” e sosteneva gli facessero benissimo). E ci si ragiona. “Il vino non si beve soltanto, si annusa, si osserva, si gusta, si sorseggia e… se ne parla”: già lo diceva Edoardo VII, re di Gran Bretagna (1841-1910).
E così, in realtà, faceva Gino, per i vini, per il cibo, per i percorsi enogastronomici – le sue indimenticabili Guide all’Italia piacevole.  Annusava qua e là “camminando la terra”, discuteva, assaggiava, intervistava, polemizzava. Infine scriveva, con quel suo stile particolarissimo che affascinava e un po’ diciamolo, faceva incazzare per l’invidia di non riuscire a imitarlo neanche lontanamente, proprio volendolo. Appunto, inimitabile.
I suoi cataloghi Bolaffi e poi Giorgio Mondadori sui vini italiani, del mondo, sulle acqueviti, sugli Champagne (alcuni scritti in collaborazione con il compianto – si perdoni l’espressione trita, ma sincera - Francesco Arrigoni) sono effettivamente delle pietre miliari. I 200 cocktail e poi I cocktail (che lui, al plurale, scriveva con la s finale, con anglofilia discutibile) sono stati le mie pietruzze miliari. Si parva licet, tornato da un viaggio da Cuba negli anni Settanta, decisi che i cocktail erano la cosa più entusiasmante che avevo scoperto sull’isola, con buona pace di Fidel,
I duecento cocktail di Veronelli, un cocktail cubano e il cocktail esotico di Moncalvi
del mar caraibico e delle belle mulatte. Così, andai al Bar Basso, ordinai un Daiquiri, mi fece “schifo” (all’Havana lo facevano frozen, una neve impregnata di rum, lime e zucchero, tutta un’altra cosa) e decisi di comprare un libro di cocktail e farmeli in casa (del Basso di Mirko e Maurizio Stocchetto divenni però in seguito affezionato cliente). Si trattava dei 200 di Veronelli: mi compravo gli ingredienti più incredibili e rari, come lo whisky bianco, l’Akvavit o lo sciroppo di gomma. Imparai a farli, ma quando scrissi un libretto intitolato Il cocktail esotico e lo portai con il mio amico Manfro (Giampiero Manfredini) a una trasmissione televisiva Rai, a Gino, lui citò gli altri della stessa collana, ma rifiutò il mio, rimproverandomi di non seguire i dettami “veronelliani”. Che consistevano nel far prevalere sempre (tranne eccezioni come il Negroni, ma si vede che nel mio libretto erano troppe) la percentuale di acquavite (o distillato) sugli altri elementi, liquori, succhi ecc. Promisi di scrivergli in seguito le mie ragioni (mai fatto) e abbozzai.
Visto che sono in vena di ricordi, uno a me caro è quello della Bodeguita del medio di via Vallazze (ora è in viale Col di Lana), sempre a Milano. Gualtiero Menoni, mitico patron, mi invitò una sera a fare un discorsetto alla presenza di Gino, sui cocktail a base di Porto e io rifilai agli astanti anche una dieta, divertentissima, per dimagrire, scolandosi tutto il giorno Porto (e non mangiando quasi niente). Però mi prolungavo un po’ troppo, così Gualtiero mi interruppe bruscamente, portandoci i suoi cocktail cubani. Bei tempi, come suol dirsi.

Luigi Veronelli – camminare la terra, fino al 24 febbraio alla Triennale di Milano, viale Alemagna 6. Orari: 10.30-20.30, giovedì 10.30-23 (lunedì chiuso). Ingresso libero. Il 24 alle 16, in Triennale, incontro “storico” fra due produttori di vino ottantenni, molto amati da Veronelli: Lino Maga, famoso per il suo Barbacarlo, in Oltrepò pavese, ed Emidio Pepe, altrettanto noto per il suo Montepulciano d’Abruzzo.
A Bergamo, dall’1 maggio al 31 ottobre. www.camminarelaterra.it. Nel catalogo Giunti, vari contributi, di Alberto Capatti, Aldo Colonetti, Gian Arturo Rota, Eduardo Grottenelli De’ Santi, Nichi Stefi, Luciano Ferraro.

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